Il saluto a Mario

“ Il mio nome è la mia storia”
(6 agosto 1945- 1 marzo 2001)
Scritti e musica di e per Mario Mazzeo

Nota
La lettura e l’ascolto dei brani musicali citati si è tenuta a Roma il 10 marzo 2001 in via Diano Marina 56.
Marco Mazzeo, Ersilia Bosco e Rita La Musta hanno letto i testi che sono stati distribuiti alle tante persone che hanno partecipato alla cerimonia laica in onore e ricordo di Mario.
Il cibo offerto e condiviso – pizzette rosse, rustici e buon vino – è stato scelto tra quello preferito da Mario. Anche i fiori e le piante sono state scelte tra quelle più amate da Mario.

21 maggio 1984

Cosa gridano i fiori al destino,con i loro vistosi ornamenti?
Cosa indusse gli uccelli a tentare con fatica le insidie del volo?
Perché gli uomini pensano ancora e continuano intanto a morire?
E’ la vita che svolge il suo corso e mortifica eccessi e difetti.
E’ la vita,soltanto la vita,la ragione di nostra sapienza …
chi la fugge o l’attacca smarrisce il cammino di sua competenza.
E la vita ci ha fatto incontrare senza offrirci nessuna ragione
che non fosse nel suo svolgimento:questi fatti si chiamano amore
e trascendono il mio sentimento.

Mario Mazzeo

Nota:
la poesia è stata offerta da Mario a Ersilia in occasione dell’anniversario del loro matrimonio

Una stretta di mano

Era un mezzogiorno di Natale. Io avevo ventuno anni ma sentivo il peso di una storia molto più lunga.
Scendevo gli scalini della clinica e mi sembrava di salire. Cercavo con gli occhi qualcosa che mi portasse lontano, al di là dei pensieri e delle paure che opprimevano la mia immaginazione.
Presi l’autobus, il numero 36, per raggiungere la stazione Termini.
Allontanarmi dalla clinica psichiatrica, avvicinarmi a casa, dover parlare con i miei familiari; volevo qualcos’altro, qualcosa che mi facesse sentire un po’ meno solo.
Improvvisamente mi resi conto di essere l’unico passeggero. Mi trovavo accanto al conducente e guardavo la strada.
Un sole tiepido e luminoso rendeva quasi luccicanti alcuni fiocchi di neve che cadevano sull’asfalto, liquefacendosi in fretta.
Il conducente guidava assorto nella sua mente ma ogni tanto mi guardava con interesse, intenso e labile come i fiocchi di neve.
Tutto mi appariva intenso e labile, viceversa mi occorrevano riferimenti stabili, affidabili, riposanti.
Meccanicamente, senza gemiti, cominciai a piangere. La liberazione che avvertivo mi impediva di provare vergogna.
Fu allora che il conducente mi rivolse la parola. Desiderava conoscere la ragione del mio pianto ed io gli raccontai di Maria, della sua improvvisa e grave malattia, del mio dolore e delle mie paure. Confessai che non volevo più sposarla, perché mi appariva troppo inquietante e inaffidabile, ma non volevo neanche lasciarla al suo destino, uscire dalla sua storia soltanto perché non volevo sposarla.
Mentre parlavo, accadde la cosa più strana. Il conducente cominciò a singhiozzare; il suo pianto era più angoscioso del mio, più contratto e più disperato.
Mi raccontò che sua moglie, appena dopo tre anni di matrimonio, aveva contratto una grave forma di malattia mentale e si era ricoverata per un lungo periodo.
Egli era rimasto solo, con due figli molto piccoli, in una condizione molto difficile e del tutto imprevedibile.
Il suo racconto fu interrotto dall’arrivo nel piazzale della stazione Termini, sede del capolinea.
Scendemmo entrambi dall’autobus e ci salutammo.
Ricordo bene quella stretta di mano, così espressiva e così inesprimibile. Ne ricordo l’energia, il calore, la passione. Mi ritorna in mente soprattutto quando vorrei fuggire dalla realtà, senza capire che la fuga dall’esistenza è, allo stesso tempo, un lusso e una disgrazia che molte persone non possono prendere in seria considerazione.

Mario Mazzeo

Oggi è domenica
domani si muore
oggi mi vesto di seta e d’amore

Il NO FUTURE dei punk ha un passato remoto e una storia recente e si impone come comportamento, contro qualsiasi ideologia, riconosciuto e fatto proprio da infimi gruppi di giovanissimi ovunque.
L’alienato mentale,come si usava -osava?-dire, è la più bassa condizione umana possibile in questa civiltà. Bene. Le forme estetiche che fanno di un uomo un matto sono la convenzione base ed unica del punk.
Il punk è visivamente un alienato se non un alieno.
C’è dell’altro.
Per i matti le catastrofi possono essere un sollievo perché alleggeriscono la pressione psichica che la società esercita in modo intollerabile su di loro.
Per i punk le catastrofi sono lo scenario sociale futuro, se non lo scenario quotidiano personale.
Davanti al matto e davanti al punk stanno le catastrofi,quello che è successo risuccederà.
Il punk è una sorta di magma mistico che protegge la propria essenza ostentando il contrario.
Confortati e fortificati in questa opinione da Salviano di Marsiglia che nel 450 d.c. col “De Gubernatione Dei” recita- è meglio vivere liberi sotto un’apparenza di schiavitù che essere schiavi sotto un’apparenza di libertà.
Labile è il confine tra il punk e la pazzia e facilmente valicabile. Non possiamo non sentirci simili.

Da: CCCP- Fedeli alla linea, a cura di Gigi Marinoni e Diego Cuoghi, Stampa Alternativa, Roma 1998.

Si prega di guardare il film

Amici inseparabili, entrambi ipovedenti, entrammo nel cinema con l’entusiasmo di sempre e con la fiducia di poterci gustare in santa pace il film che da molti giorni avevamo scelto di vedere.
Come al solito ci dirigemmo nella zona anteriore della sala di platea,per sederci in terza fila,una posizione da noi prediletta e regolarmente evitata da tutti gli altri perché troppo vicina allo schermo. Quel giorno però l’afflusso di gente fu davvero sorprendente ed in pochi minuti il cinema fu gremito in ogni ordine di posti. Eravamo letteralmente circondati da persone un po’ eccitate che parlavano senza sosta,mangiando caramelle e pop-corn.
Quando il film ebbe inizio il chiasso sembrò diminuire,trasformandosi i n una condizione di fitto brusio.
Noi cercammo pazientemente di concentrarci sul film,tralasciando inutili considerazioni sulle sgradevoli circostanze di quella situazione. A questo punto occorre sapere che il mio amico aveva una visione periferica nel solo occhio sinistro, che lo costringeva a guardare lo schermo con la testa ruotata di novanta gradi verso destra.
Considerando che generalmente in terza fila eravamo soli, io prendevo posto alla sua sinistra, per evitare di confrontarmi con la sua faccia, girata verso di me, per l’intera durata del film.
L’incidente accadde alla fine del primo tempo,quando si riaccesero le luci.
La voce quasi furiosa di un giovane energumeno apostrofò il mio amico con toni aggressivi e molto minacciosi.
Eccitato dalla gelosia,egli voleva sapere, naturalmente dal mio amico, se fosse venuto al cinema per guardare il filmo o viceversa per fissare con insistenza il volto della sua ragazza.
Fatta eccezione per noi due, a tutti i presenti sfuggiva l’involontaria comicità della circostanza e ciò naturalmente rendeva pericolosa la situazione.
Fu necessaria tutta la nostra competenza relazionale per riuscire a spiegare la condotta del mio amico senza ricevere nel frattempo una consistente porzione di percosse.
Nonostante la chiarificazione, il giovane furioso prese il posto della sua ragazza e non fu facile per il mio amico continuare a concentrarsi sul film, con la testa girata verso di lui.
Uscimmo dal cinema un po’ disorientati e sostanzialmente delusi.
Cercammo di scherzare sull’accaduto ma non ci veniva naturale e presto scivolammo in un silenzio molto pensoso.
Decidemmo comunque di tornare a vedere il film, in una giornata non festiva, durante il primo spettacolo pomeridiano, per avere finalmente la possibilità di gustarcelo al meglio delle nostre abitudini.

Mario Mazzeo

Di tanto in tanto siamo tutti stupidi. Di tanto in tanto siamo addirittura
costretti ad agire alla cieca, almeno in parte; altrimenti il mondo si
fermerebbe. E se a qualcuno venisse in mente di dedurre questa regola,
dai pericoli che la stupidità comporta: “In tutto ciò di cui ti manca una
sufficiente comprensione, astieniti dal giudicare e dal decidere”, noi
diventeremmo dei pezzi di legno! Eppure questa situazione, che oggi
suscita tanto scalpore, assomiglia a un’altra situazione,che, nella sfera
dell’intelletto, ci è familiare da tempo. Il nostro sapere e il nostro potere
sono limitati; perciò,in sostanza, siamo costretti a emettere dei giudizi
precipitosi in tutte le discipline scientifiche. Tuttavia, mettendocela tutta,
abbiamo imparato a contenere questo errore entro limiti noti, e, se ci
capita l’occasione abbiamo imparato a correggerlo. E così le nostre
azioni ritornano esatte. Perché non dovremmo trasferire questo modo di
agire e giudicare esatto e orgogliosamente umile, anche in altre
sfere della nostra vita? Credo proprio che dovremmo seguire questo principio:
“Agisci meglio che puoi e male quanto devi, e sii sempre consapevole del
margine di errore delle tue azioni”. E credo che allora saremmo già a
metà strada, nel cammino verso una vita non priva di speranze.

Da : Robert Musil, Sulla stupidità in Sulla stupidità ed altri scritti,
Mondadori, Milano,1997,pp.261-262

Un po’ di riposo

Sentivo con urgenza il desiderio di restare solo per offrire finalmente libertà di espressione alla mia stanchezza.
Soprattutto ero stanco di comunicare, di fare i conti con la presenza degli altri. Desideravo naufragare nel mare conosciuto della mia stanza, divenire un rottame che si affida ai capricci di una corrente non ostile, nella quale si può esistere senza guarire, si può camminare senza la necessità di raggiungere una meta.
Rimasto solo notai con sorpresa che non riuscivo a liberarmi dal pensiero del che fare, come se il passare del tempo chiedesse il suo biglietto d’ingresso e il suo prezzo da pagare.
Ma io non volevo pagare nessun prezzo, ero tornato a casa il gustarmi il sapore del gratuito; dovevo assolutamente liberarmi dal sentimento del dovere.
Proprio perché dovevo, non riuscivo a liberarmene.
Infatti il dovere è un po’ come la paura: quando vogliamo eliminarlo ci assale con rinnovata energia, quasi ricevesse nutrimento dal nostro desiderio di eliminazione.
Occorre viceversa iniettare nel sentimento del dovere ingredienti piacevoli, per addolcire il suo volto corrugato e minaccioso.
Compresa la lezione, cercai qualcosa di buono nel frigorifero, trovai un programma televisivo scemo ma non troppo, feci un po’ d’ordine in casa e lentamente, quasi furtivamente, scivolai nell’inerzia tanto desiderata.

Mario Mazzeo

Una storiella un po’ sadica

Ricordo ancora una storiella che si raccontava su di me, quando frequentavo la scuola media superiore.
Ad inventarla, era stato il mio amico Romolo un giovane burlone e intraprendente, al quale piaceva molto fare umorismo sulla mia condizione di ipovedente.
Una volta egli aveva raccontato di avermi incontrato sulla via Cristoforo Colombo, nel quartiere romano dell’EUR, mentre strisciavo con la pancia per terra sul marciapiede, guardando la strada con estrema attenzione.
Sorpreso ed incuriosito, si era avvicinato e mi aveva chiesto cosa facessi in quella strana posizione.
A quella domanda io avevo risposto con il tono reattivo di chi risponde a qualcosa di ovvio, dicendo che naturalmente stavo cercando le strisce pedonali.
Questa storiellina fece il giro di tutto l’istituto e devo dire che in un certo senso contribuì a celebrare e a sdrammatizzare la mia condizione visiva.
Non so giudicare se la storiella fosse più sadica o più divertente, fatto sta che in essa si esprimeva una intelligenza che in qualche modo andava oltre i soliti sentimenti della pena e della meraviglia.
Preferivo che si ridesse di me con piacere e realismo, piuttosto che si celasse la mia disabilità nello spazio vergognoso dell’ “indicibile sussurrato”.
Certo, quelle risate ferivano la mia sensibilità, ma aprivano il sentiero del dialogo e di una possibile chiarificazione.

Mario Mazzeo

Preantico o postmoderno?

Potrò forse amarti in una società priva di princìpi, avida di simboli
per mimetizzare il vuoto delle intenzioni?
Potrò forse amarti, ma il mio amore sarà post- moderno vale a dire un po’
vecchio, senza il conforto di un fondamento archeologico.
Piuttosto che la purezza di una rinnovata barbarie, occorre forse rifondare
il futuro, per la prima volta su di una rigorosa scienza del piacere, che ci
renda più forti di fronte alle tentazioni del moralismo e di tutte le altre
violenze semplificatrici.
Un piacere più vero, nel quale trovino riposo e ristoro le putride
separazioni tra l’anima ed il corpo, tra la persona e l’ambiente, tra l’io e gli
altri. Più che un augurio, si tratta di un segnale disperato, una ricerca di
dialogo nell’ultimo respiro di un secolo che avrebbe dovuto superare
l’etica della compassione e che invece ha smarrito perfino il sentimento
della pietà ed i valori della scienza.

Mario Mazzeo, 1998
Per il compleanno di Marco

5.03.2001

Quando vivevamo in un altro quartiere, la nostra casa aveva un bel balcone quadrato che andava a sfociare in un lungo dito medio che costeggiava quattro portefinestre.
Un giorno, mentre giocavo nella mia stanza sentì che Mario mi chiamava. Non so che età avessi.
“Marcooo! Marco!”
Ebbi la tentazione di dire: “sììì?” ma poi non lo feci. Mi ricordavo che non era così che era meglio rispondere. Non ricordo se mio padre mi spiegò il perché di una simile regola. Ma in modo poco chiaro e vagamente verbale avevo presente una differenza.
Se gli altri mi chiamavano,quella poteva essere un’esca. Un gioco a rialzo, una toccata e fuga, una distratta invocazione. Un gridare a distanza che suggerisce volontà di vicinanza ma afferma la rigidità della posizione. Quel “Che c’è..?” alto e strascicato che indica l’attenzione di un solo orecchio, la disponibilità contratta di chi vorrebbe ma non può.
Se era Mario a chiamare, sapevo invece che il pesce era stato preso. Il cortocircuito non si innescava e tutto si dipanava come uno di quei papiri un po’ impolverati.
Se Mario chiamava voleva dire che ero io che dovevo andare da lui ed ero io a doverlo fare perché lui, in quel momento, non poteva. Chiamarmi significava che era necessario un fare ed un’azione o, ma forse è lo stesso, un lungo discorso.
Mario mi chiamava solo ogni tanto.
Quel pomeriggio che immagino sempre d’estate, capì dalla direzione della voce che si trovava sul terrazzo. Uscì dalla mia camera, mi guardai intorno e vidi che non si trovava nel tratto che costeggiava le varie stanza. Corsi allora in fondo, verso quel quadrato di balcone.
Lui stava lungo il davanzale più lontano, con la barba lunga, il sorriso un po’ scemo ed una sega da falegname nella mano destra.
“Papà..”
“Guarda Marco, guarda che è successo…”
Quasi rideva per lo stupore di quello che era accaduto. Divertito, mi indicò la mano sinistra, quella libera. Io però non diedi retta al suo gesto e fui distratto da una pozza rossa accanto ai suoi piedi. Seguendo le gocce con lo sguardo, dal basso verso l’alto, capì con alcuni secondi di ritardo che cadevano dalla sua mano, proprio quella che mi indicava.
“Mi sono tagliato!”.
Io, ingenuo bambino, rimasi un po’ sconcertato: sapevo che quando si cade, si piange e che quando ci si taglia, si urla e si sbraita. E’ così che fanno gli uomini.
Lui, invece quasi rideva. Gli stavo per chiedere se dovevo andare a prendere lo spirito ma poi capì,così, all’improvviso, che non mi aveva chiamato per aiutarlo. No, voleva che partecipassi all’impresa. Voleva che cogliessi l’occasione per osservare meglio le seghettature dell’acciaio, le sue dita brune, il bianco del marmo, il rosso di quel sangue.
Mi aveva chiamato per vivere con lui quella sorpresa tanto inaspettata da far passare in secondo piano i rischi del tetano e le macchie sui vestiti, i cerotti ed il dolore.
Capì che doveva fargli male quello squarcio lì. E. allora, gli sorrisi ridendo con lui.
E ricordo il bianco di quei denti così sgangherati come quelli della lama che lo aveva colpito.

Marco per Mario

SELMA: ho visto tutto, ho visto i salici piangenti,
ho visto la mia terra il primo giorno di pace,
ho visto un amico ucciso da un amico
e vite finite prima che fossero trascorse.
Ho visto quello che ero – so quello che sarò
Ho visto tutto – non c’è niente altro da vedere.
JEFF : Non hai visto gli elefanti, i re o il Perù!
SELMA: Sono felice di dire che avevo di meglio da fare..
JEFF: E la Cina? Hai visto la Grande Muraglia?
SELMA: Tutte le mura sono grandi, se il tetto non viene giù.
JEFF : E l’uomo che sposerai? La casa che dividerete?
SELMA: oh, no, ma davvero, non mi importa
JEFF : Sei stata mai alle cascate del Niagara?
SELMA: Ho visto l’acqua, è acqua, nulla di più…
JEFF : ..la Torre Eiffel, l’Empire State Building?
SELMA: Volavo più in alto al primo appuntamento.
Ho visto tutto, ho visto il buio
Ho visto la luce in una piccola scintilla
Ho visto ciò che ho scelto – e ho visto ciò di cui ho bisogno
E mi basta. Volere di più sarebbe avidità.
Ho visto ciò che ero – e so ciò che sarò
Ho visto tutto – non c’è niente altro da vedere!
TUTTI ,SENZA SELMA E JEFF: hai visto tutto e tutto ciò che hai visto
è lì da rivedere sul tuo piccolo schermo
la luce e l’ombra, il grande e il piccino
ricordati soltanto – che non hai bisogno d’altro
hai visto ciò che eri – e sai ciò che sarai
hai visto tutto – non hai bisogno di vedere!

Da: Lars Von Trier, Dancer in the dark, a cura di G. Ventriglia,
Minimum Fax, Roma 2000 p. 64
Testo composto da Björk, Sjòn e von Trier e cantato da Björk e Thom Yorke

La solitudine

Nulla potrà farci “dimenticare” che un tempo la nostra vita era immersa
in qualcosa più grande di noi, qualcosa che ci consentiva di non avere
confini, di essere al di là del nostro sentimento corporeo.
Dalla nascita in poi la nostra vita è un tentativo, non sempre riuscito, di
recuperare quella condizione, per superare più o meno degnamente
l’insopportabile emozione della solitudine.
Dormire, mangiare, fantasticare, comunicare, rappresentano soltanto
alcune della azioni con cui cerchiamo di confondere e annullare i limiti
che configurano la nostra singolare identità, la quale ci priva del tutto e
del sempre, costringendo la nostra esistenza lungo la via difficile e
faticosa dell’amore

Mario Mazzeo

La teoria degli insiemi

Parole cercate con cura e fatica
per essere insieme e sentirsi vicini
vicini a sé stessi e lontani dal mondo.
Ho freddo e il dolore mi chiude la gola.
Invoco il silenzio e trovo ristoro
tra i suoni, le voci e i rumori d’intorno.
Ti cerco la mano, la stringo e già sento
un gusto d’insieme che include anche il cielo
ed offre amicizia alla forza del vento.

Mario Mazzeo

L’insostenibile peso dell’ansia sociale

Ero appena sceso dal treno in una grande stazione molto affollata.
Presi il bastone bianco pieghevole dalla borsa da viaggio e lo preparai per camminare, al fianco del treno verso la testa del marciapiede. Desideravo portarmi in un punto molto visibile, per facilitare il compito alla persona che sarebbe venuta a prendermi.
Camminando ogni tanto sfioravo con il bastone il fianco del treno per assicurarmi di mantenere la giusta distanza dal bordo del marciapiede. Procedevo lentamente poiché il chiasso prodotto dalla folla disorientava la mia concentrazione.
Ad un certo punto non trovai più con il bastone il fianco del treno e mi fu necessario cambiare strategia. Continuai il mio cammino toccando con il bastone, ogni tanto, il bordo del marciapiede ma la mancanza del treno mi procurava qualche esitazione.
Fu proprio in quel momento che mi si avvicinò una signora che mi disse con voce ansiosa e un po’ aggressiva di stare molto attento, poiché correvo il rischio di cadere sul binario.
Quella voce, spiacevole e improvvisa, turbò ulteriormente la mia concentrazione. Ebbi l’impulso reattivo di allontanarmi rapidamente da quella voce, quasi per allontanarmi anche dall’esitazione che già irrigidiva i miei passi e la mia postura.
Una lieve imperfezione del suolo fece il resto: inciampai, persi l’equilibrio e caddi bruscamente sul binario.
La mia risposta fu pronta e determinata. Mi alzai di scatto con la borsa da viaggio a tracolla, recuperando alla svelta il bordo del marciapiede e risalendovi con fatica ma senza esitazione.
Un ferroviere era lì già proteso ad aiutarmi e mi consigliò di recarmi con lui al più vicino pronto soccorso.
Replicai con frettolosa disinvoltura che non ce ne era bisogno, perché non mi ero fatto proprio nulla.
La mia replica risultò efficace ed il ferroviere si allontanò, forse perplesso circa la mia condotta, allo stesso tempo non curante e nervosa.
Io avvertivo il bruciore ed anche il dolore di varie contusioni e di qualche lacerazione sul mio corpo, ma non volevo toccarmi, non volevo osservare; desideravo soltanto che il mio accompagnatore, arrivando, non si accorgesse di nulla.

Mario Mazzeo

Essere nella tua storia

In un cielo di chiara vertigine
desideri che viaggiano, intensi
come nuvole rapide e oscure
accarezzano il fianco dei monti
per sognare un contatto infinito.
E’ il tuo braccio la via per volare
tra coloro che osservano inquieti
tra le antenne e le cime degli alberi
verso giorni più lunghi e più interi.
Cosa dire al destino che ascolta
ineffabile questi pensieri?
“Che il profumo del vento di mare
offre immagini al ritmo del tempo
e fortifica il nostro respiro”.

Mario Mazzeo

Bastone nel vento

In quella foresta, nel verde e nel blu, vivevano gli ultimi due della tribù.
L’acqua scorreva piano perché il Rio, quella notte, aveva caldo e tenue era la sua voglia di andarsene giù fino alla voce della sua foce.
Bastone nel vento aveva lo sguardo in basso e il mento chino e questo non era consueto. Seppure cieco, la sua postura era spesso alta perché la testa non è occhi ma pelle e orecchio, naso e bocca. La barba incolta era un’ombra nera sul viso e, riflessa, sulle sue spalle. Al rosso di quel sole che andava altrove, la pelle diveniva più bruna e la bocca curva.
Suo figlio Ocram stava seduto accanto a lui. Non erano di fronte perché entrambi avevano altro da guardare. I loro corpi erano paralleli ma tanto vicini che le orecchie, al vento, rischiavano di toccarsi.
Bastone nel vento era rivolto verso Nord: “Raccontano che gli uomini del ghiaccio abbiano perso la loro mente. Nel frastuono dell’alcool e nel tepore delle case non ritrovano le loro fiocine. Degli orsi smarriscono la via e li fuoco muore loro tra le mani. Il legno li separa dal ghiaccio e li protegge: ma ora quegli uomini non sanno più cos’è l’acqua al gelo. Questo è un problema.”
Ocram guardava nella direzione opposta perché la sua gola puntava a Sud. Le parole del padre si spandevano intorno come una chiazza d’acqua. Colavano dalla sua bocca infiltrandosi tra l’erba e i suoi steli, tra la terra e i suoi umori, tra suo figlio e le mani.
“Padre, difficile è parlare”.
“Lo so”.
“ Tu stai per andare via ed io non so come muovermi. Abbiamo tende e pelli. Sacchi ed asce. Ma non c’è più nessuno a badare al fuoco. Dov’è qualcuno che possa raccogliere la legna? E’ difficile comprendere cosa abbia colpito il nostro popolo. Ma ci troviamo qui in due: senza guerra e pestilenza, senza veleni né tempeste, tutti sono spariti. Ognuno è morto. Ognuno è morto per un diverso motivo: chi fatto fuori dall’orso della collina; chi colpito da un serpente; uno prigioniero del popolo dei carri; l’altro inghiottito dalle spire di quel fiume che sostiene bisonti e terra.
Ognuno senza saperlo è morto a modo suo”:
“Ocram, qualcuno lo sa. Il mento pesa e scende giù, segno che devo raggiungere la valle che tu sai e questo ultimo tratto può essere camminato solo da soli. Il vento si è alzato ed ora devo abbandonare qui il mio bastone.
Il mio nome è Bastone nel vento e sai perché. Il popolo dei carri pensò che così fosse perché questo bianco ramo mi accompagna spesso nella caccia come arco e nella pesca come canna. Ma loro non capiscono. Il vento ci circonda ma il bastone sono io. Giunco nell’aria che muove, mi sorreggo a forza ed a me si aggrappano edera e muschio finché quelli non hanno la forza di andare altrove con altre radici. Io sono un randello nodoso e caldo che si alza sporco di terra e che mira a quell’orizzonte che non conosco. Pisto e gratto, mi lancio e conficco, segno e mi appendo. Misuro. Misura, amore mio. Misura sempre: la terra ed il fiume, le tue braccia e la profondità delle ferite. Misura l’altezza del tuo scalpo e il tono delle tue parole incomprensibili.”
“ E’ difficile non avere paura, padre. Temo nel tirare fuori parole che dopo di te sarò solo io a comprendere. Non oso tirar fuori i canti della nostra terra perché orecchie straniere ne potrebbero storpiare i suoni ed il senso, la struttura e la forma. La tua morte è la morte di una lingua e quella lingua che io a stento parlo mi trema tra i denti e freme nelle membra del mio corpo. Ho paura di girovagare come pazzo e parlare con la roccia e con l’albero, a discutere con i monti e a scherzare con i lupi.”
Nel frattempo Bastone nel vento si era alzato con lenta sicurezza. Le gambe tremavano un po’ ma le ginocchia facendo il loro lavoro non permettevano né caduta né instabilità.
Sulla base del cranio il vento gli scuoteva i capelli lunghi ma radi e la barba, seppur morbida, sembrava di ferro come presa da una calamita: tutta per un verso indicava la direzione da cui ricevere spinta.
Lasciò cadere il ramo bianco che tanto lo aveva accompagnato. Poi riprese a parlare:
“Figlio, che c’è di male nel parlare con le tende ed il fuoco? Non essere sicuro che le tue parole non avranno nessun effetto. La notte non comprende il canto degli uccelli ma non per questo quelli non riposano al calar del sole. Canta. Canta spesso. E le nostre parole verranno storpiate e cambiate, intese e distolte, ricordate e perdute, preservate e compromesse. La nostra lingua forse morirà. Forse cambierà ancora pelle e come il serpente del fosso troverà nuova forma. Ma questo poco importa. Prendi il bastone che è caduto in terra che ora ho da fare. Prendilo e scegli il tuo orizzonte. Calpesta rami e steli, formiche e forme di cui non puoi avvederti. Cammina a buon passo ma senza fretta. Tempo ce n’è ma non troppo. Il passo consapevole ha il suo ritmo e ciascuno il suo. Vai leggero e lascia qui sia totem sia tabù.
Figlio mio , va’ e ricerca la linea che taglia ogni cielo. Va’ e fa il bene che puoi ed il male che devi.”
“Padre ma quel lupo, il grigio dei boschi, già mi guarda ed io devo scegliere se seguirlo.”
Bastone nel vento però era già scomparso e solo la scia dell’erba calpestata da quel passo silenzioso ne suggeriva il sentiero.
Ed io mi sentivo un po’ perso tra il solco dei suoi passi e il giallo-lupo di quegli occhi che non mollavano i miei, così quieti, così decisi.

Marco per Mario

Il mio nome è la mia storia

Il mio nome è una porta socchiusa che sorveglia severa i miei passi
è memoria di storie sepolte dal sapore selvatico e oscuro
è l’odore inquietante e prezioso che certifica il mio sentimento.

Il mio nome è un sentiero percorso che richiama più antiche andature
è il colore preciso di un sogno che figura un precoce destino
è il delirio di un padre confuso che sorride alla propria sventura.

Il mio nome è una scatola vuota che produce un’attesa febbrile
è una timida firma inquietante che confonde l’azione in affare
è una voce impaziente e sorpresa che pretende la mia identità.

Il mio nome è una fretta segreta che sospira le sue aspirazioni
è una frase terribile e ottusa che riassume la mia verità
è una voce alterata e inclemente che difende la sua schiavitù.

Il mio nome è quel gesto incompiuto che reclama un futuro migliore
è una vecchia e feroce scommessa che tradisce una parte di me
è un’immagine lucida e ardita che alimenta una truffa interiore.

Il mio nome è un copione testardo che devasta la mia fantasia
è una corsa accanita e impaziente che rincorre uno sterile oblio
è una tragica e folle promessa che tradisce la mia integrità.

Il mio nome è una pietra focaia che si nutre di luce più chiara
è un sorriso di cosa imprevista che sorprende un’atroce paura
è un germoglio di pianta smarrita che ricerca una terra più sua.

Il mio nome è una favola ghiotta di parola più dolce e sincera
è una fertile e arguta leggenda che modifica i propri orizzonti
è una storia ogni giorno più vera che sollecita nuovi racconti ….

Mario Mazzeo

Prima lettura in pubblico : 8 marzo 1981 come apertura dello spettacolo “Il mio nome è la mia storia” del gruppo teatrale “Atto semplice” tenutosi in Roma, Centro Donna di Primavalle

Musiche

Jethro Tull: Aqualung
Luigi Tenco: Cara maestra
CSI : Morire
CCCP: Libera me domine
CSI: Il gorgo
Björk e Yorke: I’ve seen it all
Billie Holiday: The man I love
Rolling Stones: Satisfaction
CSI : Noi non ci saremo
CCCP: La madonna appare