Sommario:
- C’è ancora molto da conoscere
- I fondamenti operativi per un buon inserimento scolastico degli alunni disabili visivi
- La difficile identità percettiva dell’alunno ipovedente
- Per una didattica delle differenze individuali
- Gli alunni con deficit visivo nella scuola della autonomia: il progetto educativo scolastico ed il suo necessario supporto riabilitativo
- Come giocano i bambini non vedenti?
- Audiovisivi e cecità
c. La difficile identità percettiva dell’alunno ipovedente
“Certe volte mio figlio mi disorienta. Si comporta in modo davvero incomprensibile. La sua condotta mi rende nervosa, aggressiva e riesce a scatenare, per fortuna solo qualche volta, le mie reazioni più violente.
L’altro giorno, ad esempio, mi ha indicato con curiosità un piccolo insetto che camminava lentamente sul soffitto; qualche minuto dopo è andato a sbattere con la testa contro una porta chiusa, ritenendo che fosse aperta. Come fa una persona che vede un animaletto sul soffitto a sbattere contro una porta chiusa? La sua disattenzione è insopportabile. Sembra voglia prendermi in giro e francamente questo pensiero mi fa impazzire dalla rabbia. Insomma, voglio dire, mio figlio ci vede o non ci vede?”
(Evidentemente sono le parole della madre di un bambino ipovedente che nonostante una buona acutezza visiva presenta un grave restringimento del campo visivo. Egli vede come se guardasse da un cannocchiale molto stretto e ciò spiega le apparenti contraddizioni del suo comportamento.)
Con questo mio scritto intendo presentare i problemi sociopsicologici che generalmente caratterizzano la condizione esistenziale dell’ alunno ipovedente e le difficoltà che spesso accompagnano drammaticamente il suo processo di realizzazione scolastica.
Lo spazio disponibile non mi consente di procedere analiticamente, di considerare nella loro specificità le molteplici variabili dell’ipovisione per quanto concerne l’entità del danno visivo, il momento di insorgenza della minorazione, le diverse situazioni umane e sociali in cui tale minorazione può manifestarsi.
In ogni caso posso affermare subito che i problemi e le difficoltà di cui mi accingo a parlare si presentano in misura tanto più grave e limitante quanto più incerta ed ambigua permane la conoscenza della funzione visiva residua.
Infatti la condizione di ipovisione risulta caratterizzata prevalentemente da un inquietante problema di accertamento circa le qualità funzionali del residuo visivo e dalla difficoltà di provvedere adeguatamente ad una sua integrale e prudente utilizzazione.
L’alunno ipovedente viene abitualmente ostacolato nel suo spontaneo tentativo di conoscere meglio e di valutare le possibilità offerte dalla propria condizione visiva.
Infatti l’ambiente sociale d’appartenenza osserva il suo comportamento percettivo con atteggiamento ansioso ed inquisitorio. In particolar modo i suoi insegnanti ed i suoi compagni di scuola ostacolano la sua condotta esplorativa sperimentale poiché manifestano il loro ingovernabile bisogno di rassicurazione e la paura di scoprire una verità deprimente ed inaccettabile.
Il più delle volte l’interrogativo resta per così dire paralizzato nello schema dicotomico « Ci vedi o non ci vedi?».
Una simile domanda è l’effetto più evidente di una condizione cognitiva irrigidita che di fatto preclude la possibilità di un autentico esame delle circostanze reali ed esprime più che altro una ambivalente mescolanza di illusione e di terrore.
Occorre considerare che questa domanda può facilmente divenire un interrogativo tacito e costante nell’ esperienza quotidiana dell’ alunno ipovedente, un motivo ricorrente di inquietudine, di turbamento, di rinuncia, di depressione.
D’altra parte l’alunno ipovedente può facilmente rendersi conto in simili circostanze che quanto più la sua condotta appare normale e disinvolta, tanto più nell’ambiente si instaura un clima di serenità e buon umore.
Questa connessione lo induce irresistibilmente a simulare una condotta da vedente che, del resto, riceverà calorosi rinforzi dalla spontanea complicità degli altri.
Per simulare con efficacia una apparenza di normalità l’ alunno ipovedente deve condizionare una buona parte della sua esistenza quotidiana, imparando ad eludere tutte le circostanze nelle quali il suo difetto visivo potrebbe emergere con evidenza.
Indubbiamente si tratta di uno sforzo frustrante ed ipertensivo, destinato a produrre effetti nocivi sull’integrità psichica della persona e sulla sua integrazione con il mondo circostante.
Imparando a nascondere un aspetto considerevole della propria realtà, il soggetto organizza un cronico conflitto interiore.
Infatti sforzandosi di essere accettato sulla base di una simulazione, il soggetto alimenta un intimo rifiuto di se stesso, della propria condizione e perde progressivamente fiducia nelle proprie effettive potenzialità.
D’altra parte il tentativo e lo sforzo di simulare un’apparenza di normalità, inducono il soggetto ad instaurare con la realtà circostante un rapporto inadeguato, limitato dalla medesima necessità di finzione tale da ridurre effettivamente le sue capacità di agire, di conoscere, di pensare.
Numerosi bambini ipovedenti assumono un comportamento ansioso, caratterizzato dalla instabilità motoria, dalla labilità dell’attenzione e da una forte tendenza a fuggire dalle prove.
La loro condotta frammentaria, iperattiva e disarmonica può facilmente indurci a considerarli dei veri e propri insufficienti mentali.
Viceversa questa loro condotta è il drammatico risultato di una cronica strategia di evitamento di situazioni che potrebbero evidenziare la gravità del limite visivo.
In questi casi l’ansia del rifiuto può raggiungere una intensità davvero preoccupante poiché può gradualmente compromettere nel soggetto l’organizzazione del principio di realtà, determinando gravi comportamenti compulsivi ed irrigidimenti di tipo prepsicotico.
Volendo prescindere da questi casi più gravi, torna comunque opportuno precisare che la pratica della simulazione di normalità costringe l’alunno ipovedente nell’ambito di una angusta esperienza interiore sempre più difficile da comunicare.
D’altra parte bisogna considerare che l’alunno ipovedente, anche quando desidera socializzare l’esperienza relativa alla propria condizione, generalmente incontra difficoltà notevoli , talvolta addirittura insormontabili.
In modo particolare l’ipovedente dalla nascita non può fare riferimento con esperienze di visione normale e pertanto non trova termini di paragone per esprimere con sufficiente chiarezza la propria condizione visiva.
Egli ha bisogno di essere aiutato, facilitato in tale compito da persone capaci di manifestare, con atteggiamento sereno ed accogliente, il desiderio di conoscere meglio il suo residuo visivo.
In altre parole l’alunno ipovedente ha bisogno di sentire che l’altro si interessa del suo limite sensoriale per fare meglio qualcosa insieme, per migliorare le circostanze dell’incontro e la chiarezza della relazione.
Viceversa l’ipovedente deve spesso confrontarsi suo malgrado con una curiosità comunque offensiva sia perché gravida di tensione e di paura sia perché cinica, frettolosa, superficiale.
Infatti in entrambi i casi l’ipovedente avverte che non c’è vero interesse per la sua condizione e viene indotto dalle circostanze a tentare nuovamente la via della simulazione.
Dobbiamo ammettere con franchezza che la nostra società non appare predisposta ad accogliere la presenza umana dell’ ipovedente.
Per molti aspetti si verifica il paradosso per cui la presenza dei ciechi nella società riceve maggiore rispetto e considerazione di quanto non accada nel caso degli ipovedenti. L’ipovisione viene spesso fraintesa, ridicolizzata e comunque minimizzata nella su drammaticità.
Il motivo del fraintendimento va ricercato indubbiamente nella difficoltà di riconoscimento di questa condizione sensoriale e nella sua relativa indefinibilità.
Inoltre la vita civica urbana presenta ritmi frenetici che generalmente impediscono la possibilità di spiegazioni minuziose, riducendo notevolmente la nostra attenzione verso gli altri.
D’altra parte la condizione di ipovisione non sollecita il sentimento del sacro così come invece si verifica nel caso della condizione di cecità.
Più che altro l’ipovisione sollecita il senso del ridicolo poiché mette in evidenza uno stato di inadeguatezza di cui non è facile scorgere l’intima drammaticità. L’immagine di un ipovedente munito di occhiali che urta goffamente contro un ostacolo, suscita più che altro nell’osservatore il concetto della distrazione colposa, autorizzando eventuali reazioni beffarde e superficiali.
Inoltre la richiesta di soccorso civico da parte dell’ipovedente suscita sospetto, incredulità, sconcerto, tanto da impedire spesso una risposta di aiuto valida e soddisfacente.
Allo scopo di evitare fraintendimenti e risposte inopportune, l’ipovedente spesso decide di non avvalersi dell’aiuto sociale e si avventura per la città da solo, con le proprie forze, praticando strategie di comportamento pazienti e faticose, che talvolta danno luogo a circostanze rischiose ed ancor più frustranti.
Sia l’atteggiamento ansioso ed inquisitorio delle persone care, sia la incomprensione superficiale e beffarda di gran parte della cittadinanza, non aiutano certamente il soggetto ipovedente ad organizzare con chiarezza e misura la propria vita quotidiana e a progettare con fiducia ed equilibrio la propria esistenza futura.
Se poi consideriamo che frequentemente il residuo visivo non offre alcuna garanzia di stabilità, diviene ancor più facile comprendere come la esistenza futura nella persona ipovedente possa assumere una fisionomia particolarmente incerta, insidiosa ed oscura.
Queste mie considerazioni nella loro sinteticità potranno forse apparire eccessivamente negative e drammatiche.
A questo proposito vorrei precisare che tali considerazioni sono il frutto di una lunga esperienza di studio del problema nella sua concretezza e di un’esperienza vissuta personalmente ancora più lunga ed indicativa. Rischiando di suscitare una qualche inquietudine, voglio qui affermare una mia verità personale davvero sconcertante. Nel periodo in cui sono divenuto cieco ho vissuto con profonda amarezza e con intensa nostalgia la perdita del mio residuo visivo, ma simultaneamente ho vissuto il sollievo di uscire da una condizione sociopsicologica ambigua, instabile, paradossale, caratterizzata dal fraintendimento e dal timore del futuro.
La condizione sociopsicologica degli ipovedenti merita la nostra inquietudine e la nostra preoccupazione, poiché esige una risposta istituzionale e socioculturale molto più attenta ed adeguata.
Nel corso del ventesimo secolo i ciechi hanno cercato di evolvere la pietà sociale sollecitando una preoccupazione più scientifica e feconda.
Per quanto concerne gli ipovedenti, le circostanze sociali si dimostrano più contraddittorie e inospitali in quanto il loro problema non è stato ancora focalizzato nella sua effettiva gravità.
Pertanto occorre soprattutto, da parte di noi tutti, una grande capacità di immedesimazione, tale da consentirci una solidarietà intelligente ed operosa.
Viviamo in una società poco predisposta ai processi di immedesimazione poiché pervasa dal desiderio di eludere la sofferenza che tali processi comportano.
In definitiva non possiamo impostare e risolvere opportunamente il problema degli ipovedenti attingendo esclusivamente alle risorse della moderna tecnologia. Senza minimizzare affatto il valore e l’importanza di tali risorse, la soluzione di questo problema esige, principalmente da parte nostra, la capacità ed il gusto di capire l’altro nella sua diversità di condizione, semplicemente per alimentare la gioia di vivere meglio insieme.