Essere belle e attraenti resta comunque una preziosa virtù naturale, anche quando chi la possiede non può valutarne l’entità con mezzi conoscitivi personali.
Che una ragazza non vedente possa risultare bellissima e magnetica ci appare come un fatto scontato, poco degno di fare notizia.
Una limitazione sensoriale non ferisce il corpo nella sua manifestazione plastica, nel fascino delle sue forme in movimento.
Inoltre bisogna dire che spesso la persona che non vede possiede uno sguardo integro, significativo e stimolante, contenuto da un volto mobile ed espressivo, che non richiama affatto la presenza di una minorazione.
Ciò nonostante il fatto che una ragazza ipovedente si sia presentata ad un concorso di Miss Italia, può divenire ancora una notizia da prima pagina e catturare globalmente l’attenzione di tutti i mezzi di comunicazione di massa.
La bellezza di una ragazza non vedente fa meraviglia e la storia della cecità ci insegna che la meraviglia viene accompagnata, anche troppo fedelmente, dal sentimento della pietà.
Restando nel superficiale, saremmo costretti a dire che l’ammirazione e i festeggiamenti rivolti alla concorrente disabile visiva non hanno mostrato una fisionomia pietosa e che i riconoscimenti morali hanno voluto sottolineare più che altro il coraggio della ragazza, che, nonostante tutto, ha rischiato di vivere il desiderio di mostrare la propria immagine in una competizione così importante.
Per approfondire un tantino, dobbiamo viceversa chiederci come mai si è parlato, per la prima volta, di una vincitrice morale, nel contesto di un concorso che finora non era mai stato penetrato direttamente dalle categorie del bene e del male.
Perché si è parlato di bellezza interiore in un concorso che per sua natura è centrato sulla figura visiva della persona e pertanto sulle sue qualità corporee immediatamente osservabili?
Proviamo a rispondere dicendo che forse ancora oggi la condizione di cecità ci procura di norma un turbamento così sotterraneo e ingovernabile da indurci a cercare rifugio nel sentimento del bene.
In altre parole non ci riesce di accettare semplicemente che una ragazza disabile visiva risulti bella e attraente. Abbiamo la necessità di pensare che sia soprattutto buona, che sia bella dentro.
In effetti è il suo dentro che ci turba, poiché ci appare così difficile da immaginare, richiamandoci l’esperienza del buio e dello smarrimento.
In realtà la vita interiore dei ciechi è molto meno misteriosa e inquietante di quanto si voglia o si tenda a credere.
Un’informazione più accurata e incisiva potrebbe forse mitigare questo senso del mistero. In tal caso la condizione di cecità diverrebbe qualcosa di meno affascinante, ma certamente sarebbe avvicinata e conosciuta da noi tutti con maggiore semplicità e serenità.
Vorrei comunque tornare sulla ragazza non vedente e sulla sua immagine visiva. Essere bella da guardare è senza dubbio un problema che tocca da vicino la ragazza non vedente, anche se si tratta di un problema che sottolinea immediatamente una sua quasi totale dipendenza da suggeritori vedenti.
La ragazza può compensare e mitigare questo stato di dipendenza scegliendo persone di sua fiducia, con le quali si trovi a suo agio e avverta una certa affinità culturale ed estetica.
Quando però la sua immagine visiva diviene un aspetto molto consistente della sua esistenza personale, la dipendenza viene assumendo proporzioni tali da incidere con il tempo nel delicato rapporto che ogni persona coltiva con se stessa.
Per divenire amici di noi stessi dobbiamo confidare nelle nostre possibilità personali, a partire da ciò che ci fa sentire meno dipendenti dagli altri.
In questo modo possiamo gradualmente imparare le forme della nostra partecipazione anche nelle situazioni che accentuano la nostra dipendenza.
Sia ben chiaro comunque che questa mia riflessione non vuole essere una lezione di vita, poiché ritengo in definitiva che certi errori, soprattutto i più importanti, possono difficilmente essere prevenuti.
D’altronde il diritto a sbagliare è aspetto fondamentale del diritto ad esistere, con la speranza che l’errore divenga, sempre di più, un’occasione per pensare.